Amami uomo

 “Con le mani da uomo” (il postino)

Renzo rubino

Dichiarata passione. Bella canzone. Bravo il cantante. Punto. C’è poco da aggiungere.

Perché

“No! C’è anche amore senza rima

Voglio urlare più forte di prima”

Perché Sanremo è così. Quando sei lì lì che stai per addormentarti, arriva qualcuno che ti sveglia.

E dopo la Ayane non mi restava altro che dormire o leggermi un bel libro. In realtà, poliedricamente ho fatto entrambe le cose mantenendo vigili le emozioni.

“Io non ho mai pensato

se anche l’abitudine è un bel posto

per ritrovare me”

Malika Ayane

2012

L’alba di un nuovo giorno e di un nuovo anno. E’ uguale identica spiccicata all’alba di ieri.

I cani del vicino continuano a latrare esattamente come hanno sempre fatto. Le foglie secche si ammonticchiano come sempre, tutte nello stesso punto, complice il vento che le spinge  sull’uscio di casa, così che prima di entrarci, mi devo scavare una specie di solco. Mi piace tanto però il rumore delle foglie secche al passaggio. E’ per me una sorta di gioco.

La differenza sta che invece in quest’alba io sto uscendo. Vado a guardare questo nuovo giorno da un’altra prospettiva. Così, per entrare fin da subito  nell’ottica che questo sarà un insolito anno.

E già i miei passi risuonano di solitaria introspezione. No, no è questo il nuovo. Solitaria e introspettiva sono aggettivi che circolano nel mio dna da quando ancora abitavo tra i filtri e le spirali della pancia di mia madre. Tutti i botti e i fumi di questa notte, hanno offuscato la luna che da lassù mi guarda sbigottita e mi chiede una benagol, ma io non ce l’ho e le offro una sigaretta, che quelle non mi mancano mai. Lei rifiuta categorica con una smorfia di disgusto e mi sento come quando, fuori da un ristorante o da un ospedale o dalla finestra dell’ufficio, accendo una sigaretta e alla prima aspirata scattano i campanellini di allarme. Mea culpa. Bisogna pensare ad un ridimensionamento, se non proprio ad una dismissione. Non della luna, ma delle sigarette.

Ma torniamo alla luna. Sono pronta a prestarle la mia sciarpa, me la sfilo, mi giro ed è già sparita. Avrà intravisto il sole e non voleva presentarsi così conciata, con le occhiaie e il trucco sfatto. Mannaggia alla vanità delle donne! Intanto si scivola. E già!…

La salita che porta alla Baia Vallugola  non è impresa da poco, dopo una gelata notturna. Qua e là, passerotti in cerca di briciole e mi sento un passerotto anch’io, ma magari una vecchia poiana è più corrispondente. Una vecchia poiana in cerca di briciole. Di me. Arrivo fino al mare e il silenzio si fa onda sulla riva. E strie d’argento e rosa e blu cobalto sovrastano il grigio perla del cielo, come secchiate di vernice gettate sul soffitto da un imbianchino ubriaco. Che genio! Voglio cercarlo su Google. Se gli prometto una barile di rum, forse è capace di gettare le stesse secchiate nella mia anima, che ultimamente si è un po’ ingrigita. Come i capelli. Ma qui ci pensa il mio parrucchiere.

E i gabbiani! Il loro  volo mi ha sempre affascinato. Liberi di puntare un’orata che nuota a pelo d’acqua o un torsolo di mela in una discarica, ma liberi. A questo punto mi scappa una lacrimuccia. Man mano che scende, mi si infila nell’orecchio dandomi la  stessa sensazione che mi darebbe se ad infilarsi fosse stata una pallina di grandine. A volte anche il peso specifico di una lacrima è relativo. Comunque no, la lacrima, non per la mal capitata orata, ma per me stessa. Sono libera? E’ una domanda la mia e merita una signora risposta e senza nicchiare. Mi sono fatta tutta la Vallugola a piedi e gelo a parte, non ho sentito sferragliare di catene al mio incedere. Ho fatto talmente tanta strada, che gli anni si sono susseguiti come diapositive viste dal finestrino di un treno ad alta velocità. Sempre dal lato del mare, verso nord. Ma sono libera? E nicchio. E il mio Sé vorrebbe sparire tra i flutti su una scialuppa di salvataggio, ma a parte  molluschi e gabbiani, non c’è anima viva ed è costretto a restare con me. Che nicchio ancora. Lancio un sassolino nel mare, che coglie un altro sasso, che rimbalza su uno scoglio e là vi resta. Come in bilico. Tra l’affondare o l’adagiarsi, in attesa del sole dell’estate. Niente cerchi concentrici, strati di tutto su strati di nulla. Vorrei che fosse qui mia figlia Sara. Con il suo occhio magico saprebbe cogliere da chissà dove, tra spazio  e luce, l’esatta immagine che in questo preciso istante ho nel profondo. E se ci fosse Claudia, non aspetterei certo che fosse lei ad abbracciarmi, “sapendo che quel che brucia non son le offese”. Nicchio? No, rifletto. Le mie figlie. Le mie vele. Si alza una brezza gelida, ma nel filtrare attraverso il cappotto, dolce arriva al cuore. Come loro, l’oro o quanto di più prezioso c’è in questo universo. Torno verso casa, che adesso è in discesa e non che sia più facile. Lascio immaginare. Cammino rasente gli alberi. Ne tocco uno e non mi sembra vero: è caldo! La sua corteccia è viva e se ne stacco un pezzettino, la resina profumata mi si incolla tra le dita. Allora mi chiedo perché ha lasciato che ammuffisse il ti amo che vi ho innestato tempo fa? Era così bello vederlo dondolare di gioia tra le altre foglie. Lentamente mi avvicino, con il passo silenzioso e  grave di chi va a trovare un malato terminale in ospedale. Non dondola, nonostante la leggera brezza. Resta lì appeso e inanimato. E’ un fossile. Ma un fossile di muffa, che al contatto con il palmo della mia mano è polvere. Da rosso scarlatto che fu, polvere verdastra è diventato. Disintegrato. Ecco, dal gabbiano alla polvere verdastra, ho nicchiato alla grande su una grande domanda. A casa, davanti ad una tazza di caffè fumante, che mi si sono gelate anche le antenne, mi metterò al pc e farò una ricerca di mercato. Vuoi che non trovi una nicchia di libertà?

 Auguri!

Un amore di carta

Ore 20,00 di un tempo custodito in uno spazio siderale

“Ho pensato a te per tutto il giorno. Al tuo odore di buono, al tuo sapore dolce. Più mi allontano più ti penso. Il mio essere desidera vivere di passione e novità e con te è così ogni volta. Che bella sei! Averti sulla mia pelle mi infiamma di piacere e svela l’anima. Questo mio sentirti e volerti, pecca di incoerenza, ma ti sento e tanto. Più mi allontano più ti sento. Mi tormenta il pensiero che un giorno potrei non nutrire più per te tutto questo e inconsapevolmente cerco di trovare soluzioni per cui quanto più mi allontano tanto più rimane intatto.

Quando in autunno ho percepito per un attimo che qualcosa stava cambiando, ho avuto paura e me ne sono andata.

Non potrei sopportare di non sentire più passione ed eccitazione per te. Sei un incantevole reticolo di emozioni per le quali vale la pena vivere. Mi riporti indietro in un tempo, un’altra vita in cui devo aver vissuto un grande sentimento e in questa, costantemente sono alla ricerca di quell’amore perduto.

Ciò che vivo all’infuori di te è altro, ma niente è pari a te. Nelle mie scorrerie divaganti non c’è nulla che sia simile a te anche solo lontanamente. In questo apparente farneticare, vorrei che tu comprendessi la mia sincerità. Le tue mani, i tuoi baci mi portano dolcemente a perdermi in uno spazio dove non esiste altro che te e me. Sto scrivendo, ma il mio abitare è tra le tue lenzuola, tra le tue gambe, avvolta nelle tua delicatezza, consapevole che esisti, che soffri, che mi desideri.

Sì, anch’io ti desidero. Dentro te è il luogo più caldo che c’è”

bolle-di-sapone

Ore 20,00 custodito in un altro spazio siderale

Ho dormito tra lenzuola che profumano di te. Ha suonato più volte il telefono, ma chiunque mi abbia cercata non ha importanza. Non voglio nessuno. La mia fragilità non è accessibile. Ho disdetto anche l’uscita che mi ero programmata ed ho continuato a dormire nel mio mare spossato. Mi sono svegliata con una gran fame, nel silenzio di questa casa che abbraccia ogni mio pensiero e ne fa parole da scoppiare come bolle di sapone. Calde sono quelle che anarchiche ed ostinate, trasformate scendono dagli occhi. Una si incurva verso l’angolo della bocca. Ha il tuo nome. Mi attraversa. E’ salata. Densa, come le tue mani dentro me. Mi colma mentre la fame aumenta a darmi la misura di quello che manca per essere sazia.

E’ un rapporto tra grandezze. Quanto più ti voglio, tanto più te ne vai. Le bolle scoppiano senza far rumore. Solo lo scorrere della penna sulla carta ne tradisce la presenza e graffia l’apparente immobilità dello spazio circostante dando vita a virtuali pozzanghere di nero inchiostro. Sono irreale anch’io. La mia essenza tenta di dissimulare l’assenza. Perché tu mi veda devo farmi inchiostro. Perché tu mi senta devo fare silenzio. Io come tasti di un telefono muto che non deve, non può chiamare. Come un incubo è questa sordida cupa sofferenza che non deve toccarti, perché possa continuare ad accarezzarti con la dolcezza di mani passeggere, che non lascino ombre sulle pareti sempre imbiancate di fresco della tua anima frangibile, disadorna, narcisa, altalenante, ambigua.

I colori del tramonto riempiono il mio vuoto, sembrano volersi infiltrare oltre la pelle a creare in me le ombre senza luna della sera ormai prossima. Quanta energia occorre per essere inconsistente? Quanta autonomia ancora ho?

Mi tocco il collo, a sinistra, due centimetri sotto l’orecchio. Una leggera pressione delle dita e incontro la tua bocca, la lingua, i tuoi denti. Stanotte devi avermi presa con un morso indolore. Come aria sottile ti diffondi nel mio abbandono. Mi accarezzi. Ti accarezzo. Fremo sospesa e incompiuta sulla traccia di un’ emozione intensa che adesso si contorce nello stomaco, si agita nel frustrante vuoto cloridrico in cerca di luce sole aria. Affiora spietata lungo le curve del mio corpo, per poi sprofondare avvilita in un ultimo brivido di commiato.

Addio amore.

Sei in un’altra dimensione. Inviolabile, sfuggente, assente. Tra le braccia di un’altra nomade. A dare e a prendere quanto vai costruendo e demolendo.

Tu di me assorta, ma disattenta e indifferente.

©

 2007 Anno Siderale